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Giovedì, 25 Aprile 2024
Coronavirus

"Non faceva male la fame ma quello che eravamo costretti a vedere": ecco che cosa è stato il Covid in corsia

Oltre la metà degli infermieri soffre di attacchi d’ansia e di panico. Il NurSind ha raccolto la testimonianza di una infermiera che lavora in un ospedale brianzolo

I solchi della mascherina e degli occhiali protettivi sul viso immortalati in tanti scatti in corsia, negli ospedali della Lombardia, hanno fatto il giro del mondo. Con i segni - fisici - dello tsunami Covid sotto gli occhi di tutti. Quello che il virus ha lasciato nella testa e nell'animo di quanti ogni giorno sono stati costretti a conviverci però non si può vedere solo con gli occhi. L'esperienza della pandemia, dopo mesi di turni massacranti a guardare la morte in faccia e provare a salvare vite, ha lasciato solchi profondi nel vissuto di tanti medici e infermieri. 

La paura del contagio, il costante pensiero alla famiglia, l'assistenza a pazienti che morivano - da soli - nell'arco di un quarto d'ora, con un repentino peggioramento del quadro clinico. Senza che la medicina, la scienza e nessun manuale potesse cambiare il corso delle cose. A raccontare che cos'è stato vivere in prima persona l'inferno del Covid in un ospedale della Brianza è stata un'infermiera che - con la garanzia dell'anonimato - ha rilasciato un'intervista al NurSind, il sindacato degli Infermieri.

“Oltre la metà degli infermieri che hanno vissuto e lavorato nell’inferno del Covid-19 adesso soffrono di attacchi di ansia e panico e assumono ansiolitici. Anche io, non lo nego, la sera prima di andare a letto prendo le gocce per cercare di riposare” rivela la donna.

“Abbiamo visto l’inferno, episodi e storie che rimarranno indelebili nella nostra mente come quella del  ragazzino di 12 anni al quale il Covid aveva già intaccato il cuore”. O ancora una madre di 47 anni che ha chiesto di poter avere un telefono per chiamare la sua bambina e sentire per l'ultima volta la sua voce, salutandola prima di morire. Storie e vite che il Covid, in pochi attimi, ha stravolto e distrutto. Che ora pesano come macigni anche addosso a chi per mesi, tutti i giorni, le ha avute sotto gli occhi. 

“Ho visto un paziente cenare senza problemi e morire poco dopo per un’embolia polmonare” racconta l'infermiera brianzola.  “Su 20 pazienti Covid ciascuno aveva sintomi ed evoluzioni diverse della malattia. C’era chi dopo quaranta giorni riusciva a camminare, chi invece faceva ancora fatica a muoversi e a respirare”.

“Non faceva male dover trattenere la pipì o non mangiare; faceva male quello che ogni giorno eravamo obbligati a vivere e a vedere” ha spiegato la donna. L’emergenza sanitaria sembra essere stata ormai superata ma gli infermieri non sono ancora pronti a ritornare in corsia e soprattutto, qualora dovesse arrivare una seconda ondata, rivivere quanto accaduto durante la pandemia. “Non vogliamo soldi, non chiediamo mance – continua -. Siamo stanchi, abbiamo bisogno di riposare, le promesse che ci erano state fatte di riposi e recuperi non sono mai state mantenute. Finita l’emergenza sanitaria siamo ritornati il giorno dopo nei nostri reparti. Qualora succedesse un’altra emergenza le ferie estive non sono garantite; siamo stati precettati se in autunno dovesse tornare una seconda ondata della pandemia. Una parte degli infermieri assunti durante l’emergenza, scaduto il contratto, sono andati via”.

Adesso resta un fardello enorme da portare e un disperato bisogno di quotidianità. “Pochi giorni fa ho fatto una passeggiata in centro con mia figlia; abbiamo trascorso un bel pomeriggio tra shopping scolastico e commissioni. Alla fine mi ha detto: mamma, oggi è il giorno più bello della mia vita”.

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