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Giuseppe, l'infermiere brianzolo che ha assistito i malati di Sla e ora affronta la stessa battaglia

L'intervista a Giuseppe Spadaro: la sua forza che arriva dalla fede e l'appello alle istituzioni: "Aiutate i malati e i loro familiari"

“Una delle cose che più mi manca é di non poter guidare l'auto. Un giorno durante un funerale il sacerdote disse che in Paradiso potremo fare le cose a cui abbiamo dovuto rinunciare. Stamattina pensavo proprio a questo e ho immaginato di andare in Paradiso in auto, a bordo di una Ferrari però!”. Un post che al primo impatto può far sorridere se non si conosce la storia di chi lo ha scritto. Con gli occhi. Perché dietro a quel desiderio di sfrecciare in Paradiso a bordo di una Rossa, c’è la storia di sofferenza, ma anche di profonda fede e di profondo amore di Giuseppe Spadaro. Giuseppe è un infermiere di 52 anni nato a Desio e cresciuto a Nova Milanese che per anni ha assistito i malati di Sla. Poi, improvvisamente, il destino gli ha giocato un brutto scherzo: quella malattia che lui conosceva bene e che lo ha visto assistere e portare conforto a tanti malati aveva colpito proprio lui.

La vocazione e i 23 interventi chirurgici

Giuseppe – che vive a Milano circondato dall’amore della moglie Livia e dei loro 4 figli – comunica con gli occhi e ogni giorno usa i social per confrontarsi, offrire spunti di riflessione e di preghiera. Perché la fede in tutta la sua vita ha sempre avuto un ruolo molto importante.  Giuseppe fin da bambino ha avuto problemi di salute. “Sono affetto da una sindrome rara chiamata sindrome di Mc Cune-Albright e per questo sono stato sottoposto a 23 interventi chirurgici. Quando avevo 12 anni dissero a mia mamma che avrei avuto poche aspettative di vita”. Poi a 14 anni una vocazione molto precoce: Giuseppe entra nel seminario di Venegono, ma comprende che il Signore per lui aveva scelto un’altra strada. Una strada in salita certamente. “I problemi di salute hanno caratterizzato la mia infanzia ma anche la mia vita – racconta -. Ma Dio in tutte queste sofferenze mi è sempre stato accanto”.

La gioia: la moglie e i 4 figli 

Poi la svolta, l’incontro con la donna della sua vita, il matrimonio e la nascita di 4 meravigliosi figli. “In questi anni ho passato dei momenti davvero felici che mi hanno fatto dimenticare le difficoltà dell’infanzia e dell’adolescenza – prosegue -. Per anni ho lavorato come infermiere all’Istituto Auxologico San Luca di Milano. Mi occupavo dei malati di Sla”. Giuseppe conosce bene quella terribile malattia che paralizza il corpo e lascia limpida la mente e quando il medico pochi anni gliela ha diagnosticata ero conscio di quello che avrebbe dovuto affrontare. “Fra tutte le patologie viste nella mia carriera ho sempre pensato che la Sla fosse la peggiore e nel mio intimo pensavo che quello a me non sarebbe potuto accadere anche perché già da bambino e da ragazzo avevo dato abbastanza”, continua. E invece no: a marzo 2021 i primi sintomi, poi la diagnosi.

"So a che cosa sto andando incontro"

“Sono stato travolto da uno tsunami – continua -. Sapevo che non c’era una cura e che la prognosi è sempre infausta e rapida e porta al decesso nel giro di qualche anno. Sapevo che con questa malattia diventi prigioniero del tuo corpo, non puoi muoverti, mangiare autonomamente, non puoi più parlare o respirare, se non tramite ausili esterni e invasivi. Tutte le piccole autonomie quotidiane che ad una persona sana possono sembrare ovvie e neanche nota di poterle eseguire, all’improvviso o con una crudele rapidità  ti vengono sottratte: lavarsi i denti, andare in bagno, fare un gradino, bere”. Così che la vita di Giuseppe e dei suoi familiari è stata travolta e stravolta dalla Sla. “Non posso più abbracciare i miei figli e mia moglie – continua -. Né mangiare a tavola con loro”. Quella quotidianità che alcune volte viene data per scontata per Giuseppe è stata spazzata via nell’arco di poco tempo. E poi quella trafila burocratica – un Everest da scalare – di cui certamente Giuseppe tante volte ha sentito parlare quando era in corsia. E quei racconti dei parenti dei suoi pazienti improvvisamente sono diventati i suoi. “Le visite per l’invalidità – prosegue – per l’accompagnamento, i problemi economici, mia moglie che ha dovuto sospendere il lavoro per accudirmi, il procedimento in tribunale per nominare mia moglie amministratrice di sostegno, la sospensione del mutuo”.

La missione nella malattia

 E in questo vortice intanto la malattia avanzava e Giuseppe, uomo nel pieno delle sue forze, ha cercato di dare un senso a quello che gli stava accadendo ed è anche riuscito ad esaudire un sogno: laurearsi in giurisprudenza. “Non ho mai accusato Dio – prosegue -. Ma ho cercato di capire quale fosse il suo disegno su di me”. La sua fede salda in questo lo ha aiutato. Ed è disarmante leggere i suoi post e le risposte alle mie domande dove più di una volta ha ricordato “la mia malattia avanza inesorabile e mi sto preparando alla morte secondo la mia fede”. Ma nelle parole e nei post sui social di Giuseppe c’è anche tanta serenità malgrado sia ben chiara (e umana) la preoccupazione. “Ma senza disperazione – precisa -. Riusciamo a vivere la quotidianità molto intensamente all’interno della casa: i miei cari cercano di passare con me e io con loro il maggior tempo possibile pur facendo cose molto semplici come guardare un film, assaporare un cibo, o parlare dei fatti che gli accadono nella giornata”. Certo all’inizio non è stato semplice e in pochi conoscevano quella malattia che lui conosceva bene. “Poi dopo un colloquio con il mio parroco ho seguito il suo consiglio e mi sono aperto anche sui social da qui ho avuto il piacere di ritrovare tantissimi amici che credevo persi e tantissimi segni di solidarietà e conforto”, aggiunge. Anche perché da quel corpo nel quale è immobilizzato Giuseppe sa che ha una missione da portare avanti: “Dare speranza a coloro che si disperano davanti a una malattia. In una visione cristiana questa può trasformarsi in qualche cosa che può far crescere e può anche condurci alla beatitudine del cielo. La croce è pesante ma se si guarda in lontananza l’obbiettivo del Paradiso allora la croce si sopporta di più e gli si riesce a dare un senso”.

La sua posizione sul suicidio assistito

Giuseppe dice no al suicidio assistito. “Ma non giudico nel modo più assoluto chi farebbe una scelta di questo tipo perche capisco che in alcuni momenti se non si hanno gli strumenti giusti (sostegno famigliare, sostegno economico, assistenza medica adeguata, assistenza psicologica e spirituale) è  inevitabile pensarci”. Giuseppe però chiede altro. “Bisognerebbe supportare di più, soprattutto a livello economico, le persone affette da queste patologie con prognosi infausta; ma anche la certezza delle cure palliative a domicilio sono da potenziare su tutto il territorio italiano (non solo nelle regioni più organizzate). Perché un’assistenza domiciliare ben fatta allontana il pensiero del suicidio assistito e fa sentire meno solo il paziente”.

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