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Martedì, 16 Aprile 2024
Cronaca San Fruttuoso / Via Alfonso Marelli

Sei ergastoli chiesti per la donna sciolta nell'acido a Monza

L'omicidio nel 2009 a San Fruttuoso. Il processo ha rischiato di arenarsi nei mesi scorsi, ma un calendario serrato ha portato alla requisitoria. La soddisfazione della figlia, testimone contro il padre

Sono "dei vigliacchi, che si sono messi in 6 contro una donna indifesa, l'hanno legata e torturata e le hanno sparato in testa". E poi "probabilmente dentro una fossa biologica" di un magazzino tra Milano e Monza "l'hanno sciolta in 50 litri di acido", sorvegliando "per tre giorni" che il suo corpo arrivasse alla "totale dissoluzione". E' per un "delitto orrendo" che i sei uomini che hanno partecipato alla "vendetta" contro Lea Garofalo, donna calabrese e 'testimone di giustizia', meritano "tutti l'ergastolo". Si è conclusa con questa richiesta la requisitoria, durata oltre 14 ore, del pm di Milano Marcello Tatangelo che, in particolare, ha chiesto il carcere a vita, con anche 18 mesi di isolamento diurno, per Carlo Cosco: l'ex compagno di Lea, ritenuto dagli investigatori vicino alla 'ndrangheta del Crotonese (ma mai condannato per associazione mafiosa) e presunto mandante del sequestro della donna, avvenuto nel capoluogo lombardo il 24 novembre 2009, e dell'omicidio compiuto il giorno seguente, ma programmato con "diabolica lucidità dal 2001". Richiesta di ergastolo anche per i due fratelli di Carlo Cosco, Giuseppe e Vito Sergio, che avrebbero sparato in testa alla donna, e per gli altri complici Carmine Venturino, Massimo Sabatino e Rosario Curcio. "Chi non ha premuto il grilletto non é migliore degli altri in questa crudeltà disumana", ha affermato il pm, prima di mostrare in aula le fotografie di Lea dicendo, rivolto ai giudici della prima Corte d'Assise (presidente Anna Introini): "Date giustizia a questa donna".

Una donna "fragile", come l'ha definita lo stesso magistrato, "con un'infanzia e un'adolescenza terribili, con il padre ucciso quando lei aveva 9 mesi, con una nonna che le insegnava che il 'sangue si lava col sangue'", nel più classico stile mafioso. A metà anni '90, quando Carlo Cosco venne arrestato, lei ruppe i rapporti con lui, comincio' a collaborare con gli inquirenti, divenne una testimone di giustizia e raccontò i fatti di sangue di una faida di 'ndrangheta. Come ha chiarito pero' il pm nella sua lunga ricostruzione, Cosco e il fratello Giuseppe avevano in mente da anni di "farla sparire" - il suo cadavere, infatti, non si è mai potuto ritrovare - soprattutto perché "lei sapeva" e aveva "parlato" dell'omicidio di Antonio Comberiati del 1995. Come movente quindi un mix di "odio personale" e "rancore criminale" nei confronti di quella donna. La cui morte "orrenda" è al centro di un processo che ha rischiato però di arenarsi nei mesi scorsi, quando il cambio del presidente della Corte (Filippo Grisolia è andato a fare il capo di Gabinetto al Minsitero) avrebbe potuto far ripartire il processo 'da zero' con la scadenza dei termini di custodia cautelare a luglio.

E invece il nuovo presidente ha fissato un calendario 'serrato' e si è arrivati alla requisitoria. Ad ascoltarla, 'nascosta' in un corridoio del Tribunale per ragioni di sicurezza, c'era anche Denise Garofalo, 19 anni, figlia di Lea, parte civile contro il padre e testimone "chiave" dell'accusa, assieme ad alcuni pentiti. La ragazza era a Milano con la madre quei giorni di novembre del 2009, perché il padre le aveva telefonato dicendole, come ha ricostruito il pm, "vieni a Milano, ti pago il biglietto e ti compro dei vestiti". E Lea, che era già fuori dal programma di protezione (aveva deciso di uscirne nella primavera 2009 perché stava cercando "un contatto" con l'ex compagno "per vedere se riusciva a continuare a vivere"), l'aveva accompagnata andando incontro alla sua fine. Il legale di Denise, l'avvocato Vicenza Rando, ha voluto ringraziare tutti "i ragazzi (quelli di Libera soprattutto, ndr)" per il "grande abbraccio che hanno voluto dare a questa ragazza coraggiosa", seguendo il processo. L'avvocato della madre e della sorella di Lea, Roberto D'Ippolito, ha 'denunciato' invece le "responsabilità delle istituzioni, di cui i familiari chiederanno il conto", riferendosi soprattutto alla revoca del programma di protezione da parte della Commissione ministeriale nel 2006, decisione poi comunque 'ribaltata' da una sentenza del Consiglio di Stato. Parte civile anche il Comune di Milano - su 'invito' della stessa Denise - che ha chiesto "500 mila euro" agli imputati per "danni all'immagine e patrimoniali".
(ANSA)

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